Enrico Albrici

Giaele e Sisara

La grande tela rappresentante l’episodio di Giaele e Sisara venne commissionata ad Enrico Albrici per la Cappella del Rosario dai Fabbricieri della Basilica nel 1767 contemporaneamente a Balaam benedice Israele di Giovanni Raggi. All’interno della complessa iconografia mariana della cappella ambedue le tele rappresentano episodi dell’Antico Testamento e in particolare eroine bibliche tradizionalmente prefiguranti caratteristiche e virtù inerenti la Vergine Maria. Giaele, figura tratta dal biblico libro dei Giudici, è colta nel momento in cui sulla soglia della sua tenda, presenta agli Israeliti il corpo del cananeo Sisara da lei ucciso infiggendogli alla tempia un piolo.

L’ARTISTA

Enrico Albrici (a volte indicato anche come Alberici, Albricci, Albrizzi) nacque in Val di Scalve, a Vilminore nel 1714. Viste le sue precoci qualità nel disegno, venne mandato ancor molto giovane a bottega da Ferdinando Cairo. Enrico resterà a Casale Monferrato per ben tre anni, dal 1730 al 1733, e questi saranno gli anni più importanti della sua formazione, che verrà poi completata da autodidatta. Nel 1741 Albrici sposa Magdalena, dalla quale avrà quattro figli. Per un certo periodo, lasciata la famiglia a Vilminore, il pittore scalvino lavorò recandosi nei vari comuni del bergamasco e del bresciano che richiedevano la sua opera. Solo nel 1763 finalmente la famiglia poté riunirsi trasferendosi a Bergamo per poter seguire il figlio secondogenito Giovanni che doveva farsi prete e che diverrà in futuro abate e importante matematico.
Ritrovata la serenità familiare, Albrici iniziò la serie delle “bambocciate”, genere pittorico allora assai in voga, che gli consentirono un notevole benessere economico. Le composizioni create dall’Albrici si distinguono per le scene grottesche con gruppi di nani in bizzarre situazioni che spesso coinvolgono animali domestici, ma che nascondono metafore dal significato ben più profondo, caro al mondo illuminista. La tematica assolutamente nuova per la bergamasca lo portò ad essere sommerso di incarichi (anche da Milano e Torino), ma Il forte carico di lavoro lo portava però anche a momenti di crisi. Nelle sue Vite il conte Tassi così scrive: “Molto contento si ritrovò di essersi stanziato in Bergamo, dove da’ dilettanti essendo molto gradite le sue opere, spezialmente di pigmei, ebbe continue commissioni , sicché con difficoltà poteva arrivare a servir tutti. Fu di ottimi costumi , amantissimo dell’arte sua a segno che mai non cessava dal lavoro , cosìche anche di notte o dipingeva , o disegnava. Per la qual cosa ogni due o tre anni per la troppa applicazione direi quasi impazziva, e in tale tempo diveniva prodigo , e spendeva quanto di denaro si ritrovava, in divertirsi mangiando- e sonando, e trastullandosi , chiaccherando come un ciarlatano, con la testa piena di idee signorili e grandiose a segno che diceva di voler in Viiminore presso sua casa fare un teatro per comedie., ed opere in Musica, per divertire que’rozzi villani.’ ma mancandogli poi il danaro cadde giusta il suo solito in malinconia , dalla quale dopo alcuni giorni riavutosi, tornò a dipingere”. Apprezzato dai pittori a lui contemporanei, ma anche da numerosi collezionisti, in particolare per le tematiche sacre in terra bresciana e a Bergamo grazie alle sue pitture di genere (nelle quali raggiunse veri e propri livelli di eccellenza), Albrici, a causa di una violenta polmonite morì nel 1773 a Bergamo, dove venne sepolto nella Chiesa di Sant’Andrea.

L’OPERA

La tela alzanese venne commissionata all’Albrici il 21 marzo del 1767 e il contratto relativo, rinvenuto dalla Zanardi e pubblicato dalla Baroncelli nel suo libro sul pittore scalvino, fanno esplicito cenno all’esistenza di in modello, a cui il pittore era tenuto a far riferimento nella stesura finale. Molte le prescrizioni dettate all’artista sia riguardo i contenuti iconografici (“che sia ben rappresentata l’Istoria prescrittagli, ed à norma del modello”) sia riguardo le modalità e i tempi di esecuzione (“ …l’impasto dei colori non sia superficiale, ma replicato …, sia terminato entro un’anno oggi incipiato, ma che presto gli si di principio, e si faccia adaggio…”). Forse proprio a causa di tutte queste imposizioni e di questi legami, la grande opera (quasi tre metri e mezzo di altezza) finita risultò un po’ forzata, forse anche per il taglio allungato del dipinto non molto adatto al racconto. I Fabbricieri pagarono l’importo prefissato di 25 zecchini, ma non deliberarono il previsto “regalo a cognizione e discrezione” del Prevosto che era pur stato previsto in contratto. Lo stesso Tassi scrive: “a concorrenza di Francesco Cappella, Gio. Raggi, e Federico Ferrari, fece uno de’ quattro quadri della cappella della Beata Vergine del Rosario della parrocchiale d’Alzano, rappresentante il fatto di Jaele e Sisara, il quale a dir vero è una delle sue opere men pregiabili”.

In effetti il dipinto risulta perdere la freschezza di colore e di tocco, in particolare quello delle fronde degli alberi di fondo, del bozzetto (un olio su tela conservato all’Accademia Carrara di poco meno di 80 centimetri di altezza). Anche l’aggraziata gestualità dei personaggi, tipicamente rococò, si congela nell’opera finita in una più rigida teatralità delle figure in primo piano. Tuttavia il dipinto si riscatta per le audaci armonie coloristiche, in particolare nei toni pastellati delle vesti dell’eroina caratterizzati dai vibranti giochi cangianti, che riportano a certi modelli veneti cari all’artista.

GiaeGle e Sisara

IL SIGNIFICATO

Il quadro rappresenta l’immagine finale del breve racconto tratto dal Libro dei Giudici che ha per protagonista Giaele. Nel testo si narra come Sisara, il giovane generale del re cananeo di Cazor, sconfitto dall’israelita Barac, come profetizzato da Debora, fugge credendo di trovare un asilo sicuro nella tenda di Eber, che crede alleato del suo sovrano. Tuttavia Giaele, moglie di Eber, gli offre la sua ospitalità ma dopo che Sisara si addormenta gli conficca con un martello un picchetto nella tempia. Infine (e questo è il momento rappresentato nel dipinto alzanese) va incontro a Barac e gli mostra il nemico vinto. Si legge in Giudici (Gd4, 17-22): «Intanto Sisara era fuggito a piedi verso la tenda di Giaele, moglie di Eber il Kenita, perché vi era pace fra Iabin, re di Cazor, e la casa di Eber il Kenita. Giaele uscì incontro a Sisara e gli disse: “Fermati, mio signore, fermati da me: non temere”. Egli entrò da lei nella sua tenda ed essa lo nascose con una coperta. Egli le disse: “Dammi un pò d’acqua da bere perché ho sete”. Essa aprì l’otre del latte, gli diede da bere e poi lo ricoprì. Egli le disse: “Stà all’ingresso della tenda; se viene qualcuno a interrogarti dicendo: C’è qui un uomo?, dirai: Nessuno”. Ma Giaele, moglie di Eber, prese un picchetto della tenda, prese in mano il martello, venne pian piano a lui e gli conficcò il picchetto nella tempia, fino a farlo penetrare in terra. Egli era profondamente addormentato e sfinito; così morì. Ed ecco Barak inseguiva Sisara; Giaele gli uscì incontro e gli disse: “Vieni e ti mostrerò l’uomo che cerchi”».
Nel capitolo successivo, il quinto, nel lungo canto di vittoria della profetessa Debora, ai versetti 24 e 31, si legge: «Sia benedetta fra le donne Giaele, … benedetta fra le donne della tenda! … Così periscano tutti i tuoi nemici, Signore! ».
Scelta dai Fabbricieri alzanesi per essere posta fra le eroine bibliche presenti nella Cappella del Rosario, Giaele, con il suo coraggio e la sua forza morale, va letta come prefigurazione della Vergine Maria in quanto vincitrice sul demonio e sulle forze del Male.

a cura di Riccardo Panigada (Conservatore del Museo d’Arte Sacra San Martino)